ANTONIO CANOVA (1757-1822) è l'ultimo artista italiano
di portata europea. Figlio di povera gente del contado veneto, è mandato
giovanissimo a studiare scultura a Venezia. Le prime opere sono del 1773, ma
soltanto nel '79 si afferma con un'opera importante, Dedalo e Icaro. L'anno stesso
va a Roma per studiare l'antico. Tra il 1782 e l"87 erige il monumento a Clemente XIV nella chiesa
dei Santi Apostoli cui segue subito il monumento a Clemente XIII in
San Pietro. E il tempo, anche, delle molte statue e dei molti rilievi che
meglio riflettono la sua interpretazione, il suo modo di lettura dell'antico:
paragonabile alle versioni da Omero del Pindemonte e del Monti. Nel 1802 è
chiamato a Parigi da Napoleone, che vuol fare di lui il suo statuario
ufficiale. Nelle sue opere napoleoniche non v'è ombra di oratoria; Napoleone
sarà magari l'Alessandro Magno moderno, ma il Canova non serve altro ideale che
quello dell’arte sia che lavori per napoleone o per il papa o per l’imperatore
d’Austria. Il prestigio europeo di cui gode gli permette, dopo la caduta di
Napoleone, di trattare ed ottenere la restituzione delle opere d'arte che i
francesi avevano portato via dall'Italia.
A Possagno, dov'era nato, il
Canova ha fatto costruire, dandone i disegni, una grande chiesa rotonda, in cui
si propone di riunire, nell'invaso cilindrico e nel pronao, i due supremi modelli
dell'architettura classica, il Pantheon e il Partenone.
Per decenni la critica ha considerato l’opera del Canova da un punto di vista romantico, evidentemente il peggiore per affrontare il problema dell'arte neoclassica. Si afferma che è gelida, intellettualistica, tutta cultura. Ma così ha voluto l'artista che si è imposto come un dovere il dominio del sentimento. Si salvano i bozzetti, nei quali si ravvisa chi sa quale immediatezza pittorica; e se ne tira la conseguenza che il Canova sarebbe stato un eccellente scultore, nel tipo del settecentesco Morlaiter, se non fosse stato fuorviato dalle idee neoclassiche del Winckelmann e dall'imitazione erudita dell'antico. E qui si sbaglia davvero, perché lo studio canoviano dell'antico non è affatto winckelmaniano e dal gusto neoclassico non è stato fuorviato perché egli stesso l'ha, in gran parte, formato e diretto. Un artista impegnato e cosciente come il Canova deve essere discusso per le opere che ha licenziato come definitive, e non dagli stadi preparatori; e questi, certamente di grande interesse e d’altissima qualità, debbono essere studiati in rapporto e non per contraddizione alle opere. Se il modellato del bozzetto è impulsivo, spezzato, quasi violento nei contrasti di luce ed ombra, e la scultura è perfettamente levigata, con un chiaroscuro finemente graduato, è chiaro che l'artista non si è proposto di realizzare, ma di superare e trasfigurare nella scultura la qualità plastica del bozzetto. Poiché il bozzetto dà un'immagine di grande intensità visiva, ciò che l'artista vuole superare e trasfigurare, senza tuttavia disperderla, è appunto quella realtà visiva: è questo il percorso che bisogna ricostruire per capire la sua scultura. Prendiamo il monumento di Clemente XIV: la prima opera compiuta dal Canova dopo aver studiato la scultura antica a Roma e a Napoli. È facile vedere che qui, come poi nel monumento a Clemente XIII (1787-92), il Canova parte dal tipo del monumento funerario berniniano, e non certo dal mausoleo o dalla stele classica. Non si propone di ridurre ad ordine e simmetria le movimentate masse del Bernini, perché, come si vede, nel monumento non c’è simmetria, ma progressione: dalla figura della Mansuetudine, seduta a destra in basso, si sale a quella della Temperanza, in piedi a sinistra, e da questa a quella seduta, in alto e al centro, del pontefice. Per seguire il movimento tracciato dall'artista lo sguardo deve salire, svoltare, addentrarsi in una profondità breve ma chiaramente scandita dai piani del basamento e dalla situazione delle figure. Giunti al sommo, però, vediamo il pontefice, col corpo addossato allo schienale del trono, tendere in avanti il braccio fino a sfiorare il piano-limite dello spazio ideale in cui sembra chiudersi e isolarsi, con l'armonia geometrica delle due linee, il monumento. Salire, svoltare, addentrarsi: è il percorso «sublimante» dalla vita alla morte, che è ascesa, svolta dalla vita, ingresso in una dimensione senza tempo né spazio, una dimensione che, qui, è suggerita dalla porta aperta nel basamento e dal gesto del papa, che non è di benedizione ma di saluto. Lo schema di partenza era quello del monumento berniniano, cioè uno schema fatto apposta per produrre un'emozione visiva e mettere in moto l'immaginazione: il Canova lo riduce non tanto all'ordine quanto all'essenziale, e dunque all'essenziale della visività e cioè ad una visione non più emozionante, ma chiara, distinta. Parallelamente, il sentimento che nel Bernini era spinta all'immaginazione, qui si purifica e diventa meditazione. Sono chiaramente distinti e graduati i piani d'ombra (il vuoto netto della porta, lo sfumato penetrante sotto il sarcofago, il leggerissimo velo di penombra sul marmo grigio del fondo) e quelli di luce (addensata sul drappeggio della figura seduta, sfiorante sul velo della figura in piedi, lontana e diffusa sul papa). Dal punto di vista del sentimento, i tre strati così nettamente distinti corrispondono, nonostante il dichiarato allegorismo delle figure alla tristezza, alla speranza, ad un senso dell'eterno che può essere addio o richiamo o ritorno.
I bozzetti sono il tramite necessario a questa
condensazione visiva e patetica. Non hanno certamente nulla del modellato
superficiale, volante, espanso e quasi sfogliato della luce e nell'aria, del
Morlaiter e degli scultori veneti del Settecento. Al contrario, il modellato
dei bozzetti canoviani e profondo, spezzato, fatto di placche intensamente
luminose e di profondi solchi neri. E’ un modellato che non dissolve la
superficie, ma costruisce dall'interno la forma plastica: come se la luce non
venisse dal di fuori ma dal di dentro, e non fosse una circostanza mutevole che
influisce variamente sulla percezione ma la forza con cui la forma si dà o
s'impone, senza variazione possibile, alla percezione. La forma della cosa
reale così poco interessa l'artista che un effetto di luce su parti rilevate è
ottenuto, con in più forte accento luministico, con un segno scavato nella
materia. Ciò che il bozzetto dà, dunque, non è la figura immersa in uno spazio, ma un
frammento di spazio visivo solidificato, un insieme di macchie di chiaro e di
scuro che è così com'è e produce l'emozione che produce perché include la
figura e fa tutt'uno con essa. Inutile cercate di separare la cosa, la figura,
dallo spazio in cui è come fusa: non c'è nel «percepito» un nucleo stabile e
una circostanza mutevole, un oggetto e uno spazio.
Ora, questa era, in parte, la tesi dell'«empirismo
radicale» del Berkeley, uno dei cardini del pensiero illuministico; e se non
può dirsi che il Canova la conoscesse (benché a Roma fosse in contatto con
persone che certo la conoscevano, per esempio il Fussli), sta di fatto che
sente e sentirà sempre il problema dell'unità e realtà dell'immagine. Una delle
qualità costanti e salienti della sua opera, anche quando è più legata ad una
lettura dell'antico, è la giustezza della distanza che impone allo spettatore,
il suo darsi come figura e spazio insieme, come forma immutabile perché ha
definito il proprio rapporto con la realtà naturale e nulla più può cambiarla.
Da qualsiasi punto di vista, in qualsiasi condizione di luce il suo valore, il suo significato cioè, sarà
sempre lo stesso. Ma un empirismo radicale è già un idealismo potenziale
poiché, se tutto è nel «percepito» e nulla al disotto o al di sopra di esso, è
chiaro che anche l'ideale o il divino è là, si dà nella percezione e non
può essere separato da essa. Non una riduzione, ma un
ulteriore processo, una sublimazione di tutto il «percepito» può rilevarlo.
Ciò si può capire tornando al Dedalo e
Icaro del '79 e spingendoci fino al monumento di Maria
Cristina a Vienna a cui Canova lavorò dal 1798 al 1805 riprendendo e
sviluppando gli studi per un inattuato monumento a Tiziano. Si sa che il
Canova, giovane, esitò tra la pittura e la scultura: i suoi dipinti dimostrano
una netta avversione al tiepolismo e al guardismo e una tendenza a tornare a modi
cinquecenteschi. Decide per la scultura come più adatta ad una ricerca
antipittorica.
A Roma, il processo
d’idealizzazione si precisa come processo di sublimazione. Lo stesso Canova non
parla di «invenzione» ma di «esecuzione sublime». Non poteva ignorare la
poetica del «sublime», i cui maggiori esponenti (dal Barry e dal Fussli al
Carstens) erano in contatto continuo con Roma: che la conoscesse è provato
dall'Ercole e Lica e da molti studi e disegni.
Ma non può accettare totalmente la tesi del bello nell'orrido o di una divinità
avversa e di una natura ostile che pongono l'uomo in una condizione di
solitudine e di ribellione, come il Filottete di Sofocle. Per lui, la
sublimazione avviene senza il trauma del rifiuto (protestante) della natura, e
il vero classicismo non è quello di Skopas (o di Michelangiolo), ma la «bella
natura» e la «vera carne» di Fidia e di Prassitele, l'amore «naturale» pagano
che sublimandosi evolve nell'amore «ideale» cristiano; altre opere come le Grazie e Amore e
Psiche mostrano un’analoga ricerca dell’equilibrio mentre le sue
migliori opere sono quelle in cui prevale la bellezza naturale femminile come
in Paolina Borghese, Venere italica e Ebe.
Ma tra la «vera carne» di
Fidia e il «vero spirito» cristiano c'è di mezzo una rinuncia, un distacco, la
morte. Il maggior Canova è, come il maggior Foscolo, quello dei «sepolcri» (il
monumento a Maria Cristina è inaugurato nel 1805, i Sepolcri del Foscolo escono
nel 1807). Nel monumento di Vienna il simbolo della morte e della tomba è la
piramide; e la composizione asimmetrica, di ritmo grave e pausato, è tutta un
lento, malinconico incedere verso la soglia buia della morte: primi i
fanciulli, le giovani donne, poiché la morte è vaga della gioventù e del bello,
ultimo il vecchio che l'ha invocata invano.
Questo includersi dell'idea della morte in quella della
vita è il classicismo idealistico del Canova; e la classicità stessa lo
affascina perché è morta e la stessa violenza delle passioni che la fecero si
sono placate ormai in quella «giusta distanza» che permette di vederle con
assoluta chiarezza.
Questo è anche l'aspetto già quasi romantico: quello che
di tanto lo allontana dal David quanto più lo avvicina ad un altro pittore
francese, Ingres, che proprio in quegli anni, a partire dal 1806, andava
formando a Roma, non senza l'influenza profonda del Canova, la propria cultura
classica.