Sono in molti a pensare che la Storia sia un
fedele resoconto su basi sempre più scientifiche di eventi ed
avvenimenti umani e la scientificità della Storia può solo dipendere dal
metodo con cui viene compiuta la ricognizione in ogni tipo di vestigio,
documento, testimonianza. Deve trattarsi di un metodo obiettivo che
possa tramandarci, consegnarci la Storia distaccata dalla passione,
senza astigmatismi, con orizzonti agli occhi. Ma se la vita è
prevalentemente passione come può la storia parlare un linguaggio
diverso ai viventi, ai posteri; perché non dovrebbe assumere essa stessa
i toni della passione? Può la ricostruzione storica dei fatti
prescindere dal dolore e dalla tragicità degli eventi narrati? Vi è in
ciò una concezione fatalmente semplicistica che si compendia nella
presunzione di una storia totalmente estranea alla sua stessa umanità.
E' una storia che si vorrebbe fatta di tracce materiali, di
registrazioni filmate o di documentazioni scritte, una storia che assume
con sospetto la testimonianza diretta, che rifugge dalla memoria dei
sopravvissuti e che sovente rifiuta l'analisi critica degli eventi.
L'era dell'elettronica potrà forse mutare definitivamente gli strumenti
e le fonti della storiografia. Restano tuttavia eventi, anche recenti,
che nella loro tragicità devono per essere raccontati, transitare dalla
memoria dei sopravvissuti, rivivere nei racconti e nelle parole dei
superstiti per divenire memoria collettiva, insegnamento e monito per le
future generazioni: anche questa è storia.
La tragedia europea del novecento resta, anche e soprattutto, un momento
di doverosa memoria collettiva.
C'è in questa vicenda, che attraversa il secolo trascorso, un contenuto
che travalica i singoli eventi, la loro puntuale ricostruzione storica,
c'è in questo secolo così vicino eppure così troppo spesso pudicamente
dimenticato nei suoi più tragici momenti, un dato che oltrepassa la
scientificità della storia e attiene all'essenza stessa dei valori della
civiltà europea, dell'essere cittadino d'Europa: siamo e ci riconosciamo
cittadini di un medesimo continente unito in primo luogo perché
partecipi di un'identica tragedia collettiva oltre che di medesimi
valori.
L'analisi storica ci permette di cogliere cause e ragioni dello
sterminio degli ebrei; le responsabilità, individuali e collettive,
quelle dirette e quelle indirette; si può giungere addirittura a
riconoscere nei fatti della storia i chiari segni premonitori di una
tragedia ampiamente prevedibile e anche prevista (anche in ciò sta
l'identità comune degli europei). Ma ciò che alla fine emerge con
assoluta certezza è l'appartenenza della Shoah a tutta l' Europa, alla
sua memoria storica. Emerge allora l'importanza delle testimonianze dei
sopravvissuti, del loro dolore, di ogni singolo episodio quotidiano che
concorre a ricostruire, al di là dell'imponenza drammatica delle cifre
(i sei milioni di morti), la tragicità umana di tale vicenda, la
grandezza del dolore che è sempre comunque dolore del singolo e non può
mai semplicemente sommarsi, ma deve essere letto e conosciuto ognuno per
proprio conto.
Vi è, in certe ricorrenti tesi negazioniste (1) il tentativo di condurre
la vicenda dello sterminio degli ebrei in Europa nel campo delle prove
storiche, attraverso argomentazioni pseudoscientifiche a cui è purtroppo
sin troppo facile rispondere con dovizia di particolari. Tra le
argomentazioni ricorrenti usate dai negazionisti fa spicco quella che
mira a screditare la valenza delle testimonianze dirette dei
sopravvissuti. C' è in ciò un tentativo di mistificazione che va ben al
di là della negazione della "Shoah": non è un fatto storico ad essere
negato, ma addirittura il diritto individuale di ogni sopravvissuto a
vedersi riconosciuto il proprio ruolo di portatore della memoria, di
testimone vivente dei fatti. Di tale ruolo ci ha reso una testimonianza
esemplare e indimenticabile Primo Levi con la sua opera letteraria, ma
prima ancora con il suo sforzo umano nel ricordare. Ciò che per Levi
costituì un dovere verso sé stesso e i suoi compagni di prigionia
diviene per tutti noi un obbligo a salvaguardia di qui valori di
libertà, tolleranza e democrazia che appunto perché valori autentici non
possono mai darsi per scontati.
La prima è stata raccolta direttamente
durante un incontro didattico, le altre sono tratte da archivi
documentaristici divenuti assai numerosi solo negli ultimi anni, dopo
che la definitiva rimozione di quel velo omertoso che ha coinvolto le
stesse forze alleate vincitrici del II conflitto, temuto sopra ogni
altra cosa da Levi.
Ognuna di tali testimonianze arricchisce di particolari, spesso
identici, la nostra conoscenza dei fatti: ma soprattutto, nella loro
dovizia di dettagli, ci rinnova nella mente un evento che per la sua
drammaticità rischia di essere confuso con l'immaginario.
Liliana Segre è un'anziana signora ebrea di
72 anni, portamento elegante e distinto, voce energica, occhi vivi e
volto sereno. E' seduta su una poltrona sopra il palco, davanti a lei un
pubblico ammutolito, pietrificato.
Inizia la testimonianza, d'un fiato, con emozione, ma senza concessioni
al pietismo.
La storia di questa donna si svolge in un tempo a noi molto lontano,
così distante da essere quasi inimmaginabile. Si parla di guerra, di
regimi, di leggi razziali, di deportazioni, di violenze inaudite, ma
anche di indifferenza: è la storia dell'olocausto, mai troppo
raccontata, mai troppo conosciuta.
Liliana Segre è figlia unica, appartiene ad una famiglia della piccola
borghesia milanese. E' ancora bambina, frequenta la seconda elementare,
quando nel 1938 conosce l'umiliazione delle leggi razziali. Il fascismo,
con l'avallo di casa Savoia, si mostra ad un Italia indifferente e
ancora ubriaca dei miti del regime con il suo volto più bieco: divieto
di matrimoni misti, divieto di frequentare scuole pubbliche, divieto di
ricoprire incarichi pubblici e di esercitare professioni. Le leggi
razziali segnano l'inizio dell'antisemitismo in Italia, fino ad allora
rimasta estranea al clima di odio che già da un secolo animava le
nazioni dell'Europa centrale e orientale. Nel 1938 Mussolini fa
pubblicare il "Manifesto della razza", si accoda all'ideologia nazista e
dichiara l'esistenza di una razza "pura italiana" che esclude gli ebrei.
Lo stato liberale aveva consentito alla piccola comunità ebraica
italiana di integrarsi perfettamente nella società civile e lo stesso
regime fascista aveva di fatto tollerato benevolmente gli ebrei sino al
1938, quando l'alleato tedesco pretende il pagamento di un tributo
d'amicizia e il regime è colto dall'ennesimo sussulto di emulazione.
Liliana Segre ci racconta lo sconcerto di una bambina, cresciuta in una
famiglia laica, che di colpo si vede esclusa dalla scuola e dagli amici,
emarginata nell' indifferenza di un di un paese che è sempre stato il
proprio. E' davvero singolare la sorte degli ebrei italiani, una sorta
di minoranza per disposizione di legge, italiani che di colpo si
ritrovano stranieri in casa propria. Ci spiega lo sbigottimento di
fronte all' improvviso voltafaccia di tanti amici, ma oggi soprattutto
ricorda con amarezza l'indifferenza con cui un'intera nazione accolse
leggi così assurde.
Ma la sua vita procede comunque con una certa tranquillità fino al 1943,
quando l'alleato di una volta diviene nemico e inizia la persecuzione e
la deportazione degli ebrei italiani. Liliana è costretta a nascondersi,
celando la propria identità sotto il falso nome di Liliana Cherubini.
Vive separata dal padre presso una famiglia che la ospita e la nasconde.
Tenta la fuga in Svizzera con il padre e i nonni, ma sono scoperti e
rinchiusi in carcere. Ci racconta gli interrogatori della Gestapo e le
torture fino alla deportazione ad Auschwitz dove si separa dai familiari
che non rivedrà mai più.
Il viaggio per giungere al campo non è diverso da quelli che ci ha
raccontato il cinema e la televisione: i carri bestiame, la calca, lo
smarrimento. Sentircelo raccontare però, da chi quel viaggio lo ha
fatto, è stato diverso.
Anche l'arrivo ad Auschwitz e la vita nel campo è così simile a quello
che tante volte ci è stato mostrato, che si legge nel libro di Primo
Levi, che la descrizione potrebbe sembrare inutile, ma così non è. Ogni
vita passata per quei luoghi è un dramma a parte, un tormento che deve
essere ascoltato perché il dolore non è mai uguale. Ogni numero tatuato
sulla pelle è un uomo a dispetto della maniacale organizzazione nazista.
Ci racconta anche i momenti belli vissuti nonostante la tragedia:
l'incontro con un'insegnante belga di storia, l'amicizia con Janine,
l'amica che non ce la farà. Anche Liliana come Primo levi si salverà
grazie alla casualità di un lavoro forzato che la conduce fuori
dall'inferno, nella fabbrica Union. C'è un aspetto della vita dei lager
che non andrebbe mai dimenticato: è l'enorme quantità di lavoro, la
grande ricchezza prodotta dagli schiavi dei campi di concentramento. E'
una questione non secondaria, che apre una voragine nella presunta
innocenza del popolo tedesco e di tanti che non sapevano o forse non
volevano sapere.
Liliana parla senza interruzioni, senza domande. E' in grado di darci
tutte le risposte senza che nessuno si alzi a chiedere. Ci descrive il
suo attaccamento animale alla vita, la sua voglia di vivere al di là
delle umiliazioni, della fatica, della fame, del dolore provocato dalle
ossa dei fianchi che bucavano la pelle senza più carne. Ci rapisce con
il racconto dell'incontro con Josef Mengele, l'angelo della morte, il
medico nazista che sembra uscito da un film dell'orrore se non fosse
vero. Ci racconta l'avventura della marcia della morte, quando, con i
russi alle porte, i tedeschi tentano la cancellazione dei lager e del
carico umano rimasto, fino al momento in cui il carnefice dismette la
sua veste e si nasconde in mezzo alle vittime. Allora, di fronte ad una
fin troppo facile occasione di giustizia, la nostra narratrice rinuncia
a sparare al suo aguzzino per non smarrire mai, neanche in quel momento
finale, la sua scelta per la vita.
Alla storia che ci ha raccontato Liliana Segre si addice il proverbio
yddish: "quando il sorriso scaturisce dalle lacrime l'universo si
spalanca".
Natalia Tedeschinata a Genova nel 1922, residente a Torino
Effettuato dalle SS, nel febbraio del 1944 a Casteldelfino (CN), con la madre e la nonna, dopo essere state denunciate come ebree.
- a Venasca (CN), nelle scuole
- a Torino, all'Albergo Nazionale, sede SS
Nei Lager nazisti d'Italia: a Fossoli
Nei Lager nazisti d'oltralpe:
- in Polonia, ad Auschwitz-Birkenau, matricola n.A-5404
- in Germania, a Bergen Belsen, A Dessau (sottocampo di Buchenwald)-
- nella Repubblica Ceca, a Terezin
Avvenuta a Terezin, il 6 maggio 1945, da parte dell'Armata Rossa
Non assistito, effettuato per lo più a piedi
e con mezzi di fortuna
Note: la madre e la nonna morirono a Birkenau, dove fu ucciso anche il
fratello di Natalia, Vittorio, arrestato però in un'altra occasione
Sono Natalia Tedeschi, sono nata a Genova il
19 giugno del 1922. Sono di famiglia ebrea. I miei fratelli, al momento
delle leggi razziali, erano tutti e tre all'università... Io nel 1938 -
avevo sedici anni - ho dovuto interrompere gli studi. Poi, con tutte le
varie vicissitudini della guerra, siamo sfollati con mia mamma e mia
nonna a Saluzzo. Dei miei fratelli, uno era andato con i partigiani, uno
era nascosto a Torino e l'altro è andato in Svizzera. Io sono rimasta
sola con mia mamma e con mia nonna.
Un giorno, mentre eravamo lì a Saluzzo, sono scesa nella hall di questo
piccolissimo albergo, dove eravamo, e sono arrivati due SS italiani.
Sento che dicono "Siamo venuti ad arrestare quella famiglia di ebrei".
Io sono corsa immediatamente ad avvisare mia mamma e mia nonna... Ancora
adesso penso che, forse, sapendo che eravamo lì, penso, ma con molto
ottimismo, solo adesso, che forse hanno voluto darci il tempo di
metterci in salvo. Siamo andate a Sampéyre, in Val Varaita. Questo è
successo nel febbraio del '44. Noi siamo state a Sampéyre, con mia mamma
e mia nonna, anche lì in un piccolo alberghetto per un periodo di tempo,
poi sono arrivati tutti i partigiani su e noi, più che mai, ci sentivamo
tranquille. Da fondovalle sono arrivati i tedeschi, hanno cominciato a
risalire la vallata. Cosa potevamo fare? Ci siamo portate, sempre con i
partigiani, ancora un po' più verso il confine con la Francia, però lì
c'è stata una carissima persona, un certo Flaminio Gazzano, guardia di
finanza, che ci aveva viste a Saluzzo e ci ha denunciate. Ci ha
denunciate ai tedeschi per la somma di cinquemila lire. Avevamo carte
false, ma appena fatte, e poi praticamente non avevamo mica niente da
nascondere noi, siamo stati un po' prese anche alla sprovvista. Appena
arrivato, il comando tedesco ci ha detto" Tenetevi a disposizione, che
all'una di questa notte veniamo a prendervi".
Ci hanno portate a Venasca, dove siamo state per tre, quattro giorni,
non ricordo esattamente, ospiti delle scuole di Venasca. Di notte
dormivamo sui tavolacci. Una mattina, ci hanno caricate su un treno e ci
hanno portate all'Albergo Nazionale di Torino, dove ci hanno spogliato
di quelle poche cose preziose che avevamo, perché avevamo ben poco, e
dopo ci hanno trasferito alle carceri, alle Nuove di Torino, dove siamo
state per venti giorni. Io ero in cella con mia mamma e mia nonna. In
quelle celle tremende, tremende perché eravamo proprio in stretta
sorveglianza e in sola compagnia delle cimici... Ce n'erano a
profusione, specialmente di notte.
Così sono passati venti giorni, poi un mattino ci hanno caricato su un
pullman - in realtà non era un pullman era un camion - ci hanno portate
a Porta Nuova, da Porta Nuova, su un treno, siamo arrivate a Fossoli,
nel campo di raccolta di Fossoli. Questo è avvenuto, io penso, i
primissimi di marzo. Noi eravamo nel campo dei razziali, e siamo state
lì venti giorni. Avevamo ancora i nostri vestiti, le nostre cose, la
mattina ci hanno caricate su dei carri bestiame... Partenza con
destinazione ignota, non si sapeva assolutamente. Però, da quel poco che
avevamo saputo, si pensava di andare in Germania, in un campo di lavoro,
perché tutti, senza sapere niente, dicevano che la nostra fine sarebbe
stata quella. Era il 16 maggio, ci hanno portato alla stazione di Carpi
e lì è stata l'ultima volta che ho visto mia nonna, perché il suo
cognome da sposata era Sacerdote, mentre noi eravamo Tedeschi, così è
salita nel vagone prima e non l'ho più vista... Io sono rimasta con la
mia mamma... È stato il Transport più lungo che c'è stato, perché siamo
partite il 16 maggio e io sono arrivata a Birkenau il 23 maggio, il più
lungo di tutti, non so per quale motivo, abbiamo impiegato ben otto
notti e sette giorni. Eravamo tutti stipati nel vagone, saremmo stati
una ottantina.
Siamo arrivate di notte e siamo state nei vagoni fino al mattino dopo.
Quando poi hanno aperto il portellone del carro bestiame, da cui siamo
scese, tutti questi ordini in tedesco, che non si capivano. Abbiamo solo
capito che dovevamo lasciare lì tutti i nostri bagagli, perché qualcuno,
forse qualche interprete o qualcuno dei prigionieri che sapeva il
tedesco, aveva capito che le nostre cose ci sarebbero poi state
restituite in un secondo tempo. E noi, anche lì, ci abbiamo creduto. E
poi hanno diviso immediatamente le persone giovani, le persone meno
giovani, gli uomini dalle donne, selezionando quelli che potevano
entrare in campo o meno. Io ero sotto braccio a mia mamma... La mia
mamma, che non aveva ancora 50 anni, ne aveva 49, mi è stata proprio
strappata via dal braccio, è una sensazione che provo ancora adesso...
Sento questo braccio che trema, che mi viene portato via... Io sono
andata nel gruppo di quelle che entravano in campo e mia mamma, senza
che io me ne rendessi conto, è stata divisa.
Quando poi sono entrata in campo, dopo che ci hanno tolto completamente
tutto, anche i vestiti che avevamo addosso, tutto completamente, quel
poco che c'era rimasto… Ci hanno tatuato il numero sul braccio, il mio
numero è: A5404, e siamo entrati in campo. Io, appena entrata in campo,
dopo pochissimo, forse il giorno dopo, no il giorno stesso, vedo nel
campo mia cugina Giuliana Tedeschi, che era stata deportata con mio
fratello Vittorio, mio fratello che... Era nei partigiani ed è stato
denunciato da un amico suo, che era nei partigiani con lui, e l'ha
denunciato come ebreo. Poi destino ha voluto che lui sia morto il 25
aprile, il giorno della liberazione di Mauthausen, e questo amico che
l'ha denunciato, non so per quali motivi, non l'ho mai voluto sapere, è
morto a sua volta a Mauthausen, evidentemente qualcuno ha denunciato
anche lui.
La vestizione è stata una cosa tragica... I vestiti erano stracci, non
avevamo divise, assolutamente niente. Io, per tutto il tempo che sono
stata a Birkenau, ho sempre avuto una scarpa e uno zoccolo, non ho mai
avuto un paio di scarpe uguali. I capelli li han poi tagliati dopo.
Come sono entrata nel campo, mi avevano detto tutte: ricordati di morire
nel campo, se devi morire, ma non passare dal Revier, perché se vai al
Revier non esci più. E io, disgraziatamente, ho avuto un'infezione alla
gamba, che non camminavo più, sono dovuta andare al Revier per forza.
Durante quei due o tre giorni che ero lì, il nostro lavoro era stato
quello di trasportare pietre. Trasportavamo le pietre da un mucchio, lo
portavamo lontano nell'altro mucchio, poi viceversa… Ad ogni modo, sono
entrata nel Revier. Sono stata seduta su una specie di sedia, con la
gamba alzata, e ho fatto per terra una pozza di sangue, di pus, di tutto
quanto... Mi hanno messo intorno alla caviglia della carta igienica, poi
mi hanno mandato nuda come un verme in quei castelli di legno con una
che aveva il tifo. E noi, tutte e due nude per dieci giorni, nude
completamente, con questa, che aveva il tifo e naturalmente si sporcava
in continuazione, e un'unica coperta. Sono stata al Revier immobile per
quaranta giorni... E per quaranta giorni, ogni mattina entrava Mengele.
Sai chi era Mengele? Era l'angelo della morte: un uomo bellissimo,
elegantissimo, col frustino in mano, che indicava nei vari castelli chi
doveva andare alla selezione. Andare alla selezione voleva dire che tu
eri segnata, eri destinata ad andare ai forni crematori: ti mettevano in
un blocco particolare, ti davano un supplemento di vitto, poi dopo c'era
un... Sentivi tutte queste creature caricate sul camion che urlavano
perché sapevano che andavano a morire... Uscendo dal Revier, non avevo
più forze, non potevo stare in piedi, quando mi sedevo per terra se mi
rialzavo tutte le ossa scricchiolavano. Entrata nel campo, dopo aver
saputo che mia mamma e mia nonna erano passate per il camino - non l'ho
saputo subito, ma dopo essere uscita dal Revier - ho pianto un giorno e
una notte consecutivi, da allora non so più piangere, assolutamente.
Sono andata poi a lavorare nelle cucine. Il lavoro consisteva - era un
lavoro anche abbastanza fortunato - nel prendere i bidoni di zuppa e
portar da mangiare al Revier. Io non sono mai uscita dal campo a
lavorare, e quella è stata una fortuna... Andando nel Revier, una delle
cose, un ricordo terribile... C'erano delle donne che avevano partorito
durante la notte e c'erano tutti quegli esserini messi in fila, su una
specie di ripiano, erano tutti lì che si muovevano... Qualcuno si
muoveva ancora, non erano ancora morti, si vede che qualcuno era nato
dopo oppure era più forte degli altri e stentava a morire. C'erano tutti
quei cadaverini di bambini, lì nell'anti-Revier, diciamo.
A novembre ci fu un appello particolare. Siamo state in appello fino a
notte. Io avevo anche la febbre, avevo un febbrone... Poi a un certo
momento ci hanno avviate e ci hanno detto che potevamo camminare
incolonnate, non sapevamo dove saremmo andate, se ai forni crematori o
in un altro campo. Siamo arrivate a Bergen Belsen... Mi ricordo che
pioveva, non c'era la baracca per noi, così ci siamo buttate per terra a
dormire sotto la pioggia, abbiamo dormito lì. Solo successivamente ci è
stata assegnata la baracca. A Bergen Belsen non abbiamo lavorato, sono
stata poco in quel campo. Cercavano personale per andare a lavorare in
una fabbrica, a Dessau, che è un sottocampo di Buchenwald. In questa
fabbrica, si faceva del materiale, dei pezzi di ricambio per aerei,
pezzi di ricambio, bulloni, cose così, e si lavorava in gruppi da
venticinque, venticinque di giorno e venticinque di notte, dalle sei del
mattino alla sei di sera, e viceversa. All'interno di questo campo,
comunque, il trattamento era leggermente più umano, benché noi si
parlasse solo e sempre di mangiare e avevamo un unico argomento e un
unico sogno, sempre quello.
Però devo dire una cosa, che la fame è terribile, perché chi non ha
provato non può rendersi conto, è inutile che uno dica. Però la sete è
peggio. La sete ti fa impazzire, ti porta proprio... La fame è
terribile, perché noi avevamo sempre e solo quell'argomento, raccontarti
e scambiarti le ricette, di cosa faceva la mamma, di cosa faceva la
nonna, di cosa facevamo noi. Era solo quello, c'era un discorso unico,
solo quello. Ho già raccontato in varie occasioni che una mia carissima
compagna di sventura, Anna Cassutto, moglie del rabbino Cassutto di
Firenze, aveva lasciato a Firenze, quando l'arrestarono con il marito,
quattro bambini. L'ultima bimba aveva 40 giorni... Non l'ha più
trovata... I nonni sono riusciti a portare i tre bambini più grandi in
Israele. Lei è stata deportata col marito, che non è più tornato... Lui
era oculista ed era anche rabbino di Firenze... Naturalmente una
delazione, anche lì... E quando io le ho chiesto "Anna, ma cosa
preferisci, un piatto di pastasciutta, o vedere i tuoi bambini?". E lei
dice "Un piatto di pastasciutta". Guardate che cose... Il colmo...
Questa è una cosa che mi è proprio sempre rimasta. Racconto ancora
questo... Non riguarda me, ma è una cosa tragica... Anna è poi riuscita
ad andare in Israele - allora era ancora Palestina credo - e ha
ritrovato i suoi bambini; lavorava in un ospedale... Un attentato arabo
sul pullman ed è saltata per aria... Portare a casa la pelle, dopo
quella tragedia che c'è stata, e morire così poverina...
Comunque... Una mattina che dovevamo finire il turno, c'era già stato un
cannoneggiamento russo, come è successo anche ad Auschwitz, ci hanno
spostati. C'era già l'avanzata russa. Ci hanno portato a Terezin. Io poi
ho avuto anche il tifo petecchiale, ho un ricordo terribile, di quella
febbre che ho avuto, perché sono arrivata proprio al delirio.
E poi... Il 6 di maggio è avvenuta la liberazione. Io ho pensato. "Ce
l'ho fatta fino adesso e non ce la faccio più". Allora mi sono imposta
di... Quando stavo leggermente meglio, cercavo di fare qualche passo
tutti i giorni, due passi, poi il terzo giorno farne tre, farne quattro,
perché... Sono arrivata alla liberazione, perché mi avevano detto "Ci
sono i russi, siamo liberi... Ci sono i russi e siamo liberi!". Ma poi,
quando eravamo lì, nessuno veniva a prenderci, nessuno sapeva della
nostra esistenza. Però i francesi erano venuti a prendere i francesi,
anche i belgi, ma gli italiani niente. Allora, appena stavo un pochino
meglio, in quattro siamo partite e siamo andate fino a Praga, con mezzi
di fortuna, a piedi, siamo andate alla casa d'Italia, dove ci hanno
accolte, ci hanno dato anche qualche soldo... Abbiamo girato un po' per
Praga ed è venuta fuori tutta la nostra femminilità, perché con quei due
soldi che avevamo, siamo andate a comprare il rossetto... Puoi
immaginare: in quelle condizioni, magre, brutte, smunte, senza capelli,
abbiamo comprato il rossetto. Che cose... Nelle cose tragiche, c'è
persino una nota comica, perché è comica sì, in quelle condizioni...
Abbiamo cominciare a lanciare degli appelli, via radio, però non abbiamo
mai avuto risposta. Allora un giorno abbiamo detto "Cosa facciamo?",
"Andiamo via!", "Andiamo fino a Vienna? Da Vienna ci sarà qualche mezzo,
qualcosa che ci porti in Italia...". Siamo state poi in case devastate,
altri quaranta giorni lì, ma nessuno veniva a prenderci... Allora
abbiamo deciso, abbiamo preso una strada una mattina e ce ne siamo
andate e siamo arrivate a piedi fino in Ungheria. Di lì siamo arrivati
poi, con un treno dei partigiani, fino al confine con la Jugoslavia, poi
siamo arrivati a Lubiana. Ad ogni modo siamo arrivate a Trieste, e a
Trieste siamo andate alla comunità ebraica, dove ci hanno accolte e ci
hanno messo a disposizione delle brande, ma noi non eravamo più abituate
a dormire nelle brande, così abbiamo dormito per terra. Poi con tutti i
mezzi di fortuna che ho trovato ci ho impiegato otto giorni sono
arrivata a Torino. E ho saputo lì che mio fratello era mancato il 25
aprile del 45, il giorno della liberazione.
Superstite di Auschwitz, Sosnowitz e Mauthausen. Testimonianza reperita all'interno del sito web della Unione delle comunità ebraiche italiane.
Il 16 ottobre, in via Baccina il padrone del
bar mi avvertì che un gruppo di tedeschi andava in cerca in tutte le
case del quartiere degli ebrei. Tornai a casa e dissi a mia madre e a
mio fratello di non uscire perché era molto pericoloso e allora presi il
tram scendendo a Ponte Garibaldi mi tenni lontano dal ghetto e ai
giardinetti di San Carlo al corso in via Arenula mi fermai nel centro di
un gruppo di persone che stavano guardando da lontano lungo via di Santa
Maria del Pianto. Fu una cosa terrificante: i tedeschi, in assetto di
guerra, spingevano coi calci dei loro mitra della povera gente inerme
per Teatro Marcello. Potei vedere uomini, donne, vecchi, paralitici,
bambini, ammalati, e alcuni con le loro valigie che erano ad aspettare i
cani delle SS.
Ebbi paura che nel gruppo qualcuno mi riconoscesse e tagliai la corda e
ritornai a casa portando via mia madre e mio fratello.
Decisi di andare verso il quartiere San Paolo dove vi era un mio amico
caro, Giuseppe Sala. Questo mio amico aveva un negozio, un magazzino più
che altro, di carta da macero. Mi accolse e mi dette subito ospitalità
nel suo magazzino dove mi tenne nascosto per qualche giorno a dormire
sulle balle di carta.
Non durò a lungo questo nascondiglio, perché una donna urlò che dovevamo
andar via perché se no avrebbe chiamato i tedeschi. Per la strada nel
quartiere vidi una famiglia disperata che cercava un rifugio per
nascondersi. Era la famiglia Di Veroli: marito e moglie con due figli.
Li chiamai anche loro, per portarli nel mio nascondiglio. Così anche
loro per qualche giorno si nascosero nel magazzino di carta, dormendo
sopra le balle di carta. Dopo qualche giorno a causa di quella donna che
insisteva dovemmo lasciare questo nascondiglio e andare ognuno per i
fatti suoi. Non ci vedemmo più.
Non era rimasto altro che tornare a casa. Qui la signora Assunta ci
rassicurò, dicendo di stare tranquilli perché tutti gli inquilini erano
bravi e che non avrebbero mai tradito. Quando fui certo che mia madre e
mio fratello potevano stare al sicuro mi andai via perché volevo
andarmene da Roma. In via Arenula mi incontrai con un mio amico.
Decidemmo di partire verso le montagne in Abruzzo perchè ci informarono
che vi erano dei soldati italiani che aspettavano di raggiungere gli
alleati. Abbiamo preso un treno e siamo andati ad Avezzano. Ad Avezzano,
di notte, un po' smarriti, abbiamo visto una signora in una casetta e
abbiamo chiesto se poteva ospitarci per il fatto che c'era il
coprifuoco. Questa donna ci dette ospitalità nelle sue stalle, ci dette
anche un bicchiere di latte, poi ci disse che il giorno appresso avremmo
dovuto andarcene, perché anche lei aveva paura.
Così la mattina seguente ci indicò dove dovevamo andare per stare
tranquilli. Ci indicò di passare verso la montagna e arrivare a un
paese, Sant'Aglione, un paesetto piccolo nel quale rimanemmo sbalorditi
di vedere i soldati alleati che stavano giocando col pallone in piazza.
Erano dei soldati che erano scappati dopo l'8 settembre dai campi di
concentramento. Qui, in questa casa dove c'era scritto "Spaccio", vi era
una brava signora con due figlie e il signor Antonio, che era una
guardia campestre. Lì ci ospitò, ci dette anche da mangiare e noi ci
confidammo che volevamo trovare il modo di incontrarci con le truppe
alleate. Lui ci assicurò che il giorno seguente saremmo andati su per le
montagne, dove vi era un accampamento di questi soldati. Così il giorno
seguente ci siamo messi in marcia; dopo tante ore sulle montagne siamo
arrivati nel campeggio, ma non c'era nessuno. La nostra vita continuò
per qualche giorno così in questo paesetto di Sant'Aglione: gente buona,
che quando passavamo ci offriva da mangiare quello che aveva. Poco tempo
dopo Giovanni, il calzolaio di via della Reginella, ci dice che doveva
ritornare a Roma.
Ritornando a Roma avevo bisogno di trovare qualche cosa da portare a
casa da mia madre. Allora cercai un carrettino in affitto a via dei
Vascellari e mi recai presso piazza Istria, da quelle parti, e trovai da
compare delle bottiglie usate. Era l'unico modo che potevo trovare per
sbarcare il lunario e rivenderle. Una fruttivendola mi disse che aveva
molte bottiglie e io le dissi che volevo comprarle, però non avevo tanti
soldi. Contrattati insomma un prezzo ma i soldi non mi arrivavano tanto
per quanto era la sua richiesta. Allora le lasciai un po' di soldi,
insieme alla mia carta d'identità, che il giorno seguente gliela avrei
ripresa. Così fu che il giorno seguente io per andare a prendere queste
bottiglie cercai il mio socio, Di Castro. Tante volte abbiamo fatto
degli affari insieme; lo cercai all'isola Tiberina e lo chiamai di
venire con me. Ho anche rimorso perché lo pregai tanto di venire a fare
questo affare insieme. Così prendemmo un carrettino e andammo su. Però
passando per via Goito, fui fermato da un agente di pubblica sicurezza,
proprio davanti alla Questura e vi era uno della Vai, la polizia che
aveva aderito alla Repubblica sociale. E mi disse: un momento, datemi i
documenti. Io col mio compagno dissi: dagli te i documenti, ma anche lui
non li aveva. Ma poi pensai: può darsi che sia un po' umano e
comprensivo, insomma, di quello sta succedendo. Gli dissi che noi
eravamo ebrei. E lui disse: soltanto un momento per identificarvi. In
quel momento, quando entrò dentro il portone, ci prese a schiaffi e ci
disse: sporchi giudii, e da lì cominciò il mio calvario.
Dentro il carcere trovai altri due miei amici, Angelo Vivanti e Raffaele
Terracina, così lì dopo alcuni giorni fummo portati a Regina Coeli, al
sesto braccio, dove si sentivano lamentele, spari, eccetera. Altri
compagni miei trovai dentro al carcere, compagni di scuola, Davide
Moresco, Anselmo Calò e altre persone.
Dopo poco tempo, alcuni giorni, ci chiamarono all'appello fuori dalle
celle, tutti inquadrati, ammanettati. Fecero l'appello e uscimmo dal
carcere. C'erano dei pullman ad aspettarci. In quel momento un altro
pullman dietro noi arrivò: erano donne e bambini che erano stati
catturati e portati al carcere minorile di Porta Portese. Queste
famiglie ci raggiunsero coi loro mariti, i figli, eccetera e lì cominciò
il nostro calvario. Da lì ci hanno messo in cammino per giorni e giorni
su questi pullman con una guardia di sicurezza e i fascisti che ci
facevano da scorta. Arrivammo al carcere di Castelfranco Bolognese. Qui
passammo qualche nottata e poi riprendemmo il cammino, verso il campo di
concentramento Fossoli di Carpi. Vi erano già tante persone là, che
erano già state prese prima di noi, come le sorelle Di Veroli, Silvia e
Giuditta Di Veroli e altre persone. Qui incontrai un zio mio, Alberto
Spizzichino, fratello di mio padre, il quale mi raccontò di essere stato
preso dalla banda Pollastrini, bastonato a Palazzo Braschi e poi dato in
mano ai tedeschi. E qui mio zio un po' mi abbracciò e mi disse: figlio
caro, se ti riesce di scappare, scappa via perché non sappiamo più che
fine facciamo.
In questo campo c'erano anche dei carabinieri di servizio ma qualcheduno
aveva pure il coraggio di scappare perché non ce la faceva a fare la
sorveglianza e della povera gente, delle povere creature, dei poveri
ragazzi che stavano in questo campo.
Io lavoravo con una ditta di Carpi a fare il muratore, aiutavo come
apprendista, e mi dissero che se uno di noi tentava di fuggire avrebbero
ucciso dieci persone. Avevo molte possibilità di scappare ma non avevo
il coraggio se poi avrebbero ammazzato dieci persone per colpa mia. Così
seguii la corrente.
Un giorno poi vennero dei camion, ci hanno portato a Modena nei vagoni,
rinchiusi con donne, bambini, vecchi, dottori, avvocati, di alto e basso
ceto, tutti insieme. Ogni vagone c'era un fascista di dietro e le SS
davanti ai vagoni che davano ordini. Quando si arrivava nelle pianure
aprivano gli sportelli e dovevamo fare i nostri bisogni sotto i binari
dei vagoni, sotto il sorriso e le angherie dei fascisti e qualcuno che
diceva: "Se volevate scappare scappate, così facciamo il tirassegno".
Una cosa vergognosa per noi fare i nostri bisogni vicino a donne,
uomini, alla meglio, come potevamo. Non c'era altra soluzione. E si
riprende il cammino per giorni, quattro, cinque, sei giorni.
Entrati in Austria ci hanno fermato, ci dettero un latte, delle
crocerossine, con del semolino caldo. Quello fu un ristoro che insomma,
si poteva accettare, dopo tanti giorni dentro ai vagoni chiusi.
Arrivammo ad Auschwitz di notte, si sentivano le urla dei cani, delle
lunghe file che cantavano una canzone che non si capiva. Alcuni
portavano delle strisce rosse altri vestiti bianchi e azzurri, zebrati,
come una zebra. La mattina ci aprirono i vagoni con delle urla "Schnell,
alle heraus", fuori tutti. Là vi erano dei dottori, degli ufficiali
vestiti con dei camici bianchi come se fossimo gente da macello e
facevano le spartizioni di donne e bambini da una parte e dall'altra, le
altre volevano il marito, una cosa straziante. Dovevamo seguire e stare
zitti e venivamo bastonati. La nostra sosta a Birkenau fu di pochi
minuti e poi ci misero in cammino verso il campo di Auschwitz. Non so se
erano due o tre chilometri, dove c'era un cancello dove c'era scritto"
Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi. Ci spogliarono tutti nel
centro di un Block, tutti nudi e ci dissero di non tenere nulla di
nostro che se avessero trovato una fotografia o qualsiasi oggetto ci
avrebbero punito severamente.
Ci dissero di entrare dentro ad un posto dove c'era scritto Waschraum,
bagno, ma non sapevamo che quel bagno era a doppio uso. Lì cominciarono
prima a rasarci da tutte le parti del corpo, dopo fare il bagno con
acqua bollente e acqua gelata. Appena fuori ci fecero il numero sul
braccio a ciascuno di noi. Io divenni il numero 180098. Da lì avevamo un
numero e un'etichetta sopra ogni vestito con la stella di Davide. Sulla
stella, vicino, vi era il numero che noi portavamo sopra il braccio.
Dopo aver fatto la quarantena fui messo al servizio interno del campo,
portando contenitori, da mangiare.
Al campo le prime botte con malvagità le ebbi da un kapò perché
scendendo dalle scale voleva che andavo più svelto. Così dopo alcuni
giorni, qualche mese, ci trasferirono. Mi separai da mio zio ad
Auschwitz, non lo rividi più. Con i camion ci portarono a una certa
distanza da Auschwitz, a Sosnowitz. Qui a Sosnowitz abbiamo passato le
più brutte giornate. Ci facevano lavorare notte e giorno in una fabbrica
bellica dove si costruivano delle granate per bombe. La mattina quando
si usciva dal campo dovevamo cantare gli inni nazisti, se qualcuno non
cantava veniva tempestato di percosse. Così all'entrata e così
all'uscita.
Un giorno, si avvicina Natale del '44, si sentono già le cannonate dei
russi e allora aspettavamo la liberazione. Ma non fu così. Un giorno un
gruppi di russi tentarono la fuga, e due di loro furono presi. In quel
momento in mezzo al campo vi erano degli alberi per festeggiare il
Natale. Questi due russi li hanno messi su un tavolone, dove hanno
piazzato la forca e noi dovevamo assistere a questa impiccagione di
questi due sventurati perché avevano tentato la fuga. Il capoblocco, che
era un criminale tedesco internato, mentre gli mette la corda al collo
li prese a schiaffi, che anche l'ufficiale deplorò questo fatto. Ecco un
giorno, una mattina, una campanella suona: tutti fuori, prepararsi
quello che avevamo e prendere la marcia, una marcia forzata. In diversi
villaggi e in qualche città, quando passavamo, alcuni giovani ci
gettavano addosso dei sassi, strillando "Maledetti ebrei". Queste sono
parole sentite molte volte, qualche volta abbiamo incontrato anche
qualche gruppo di soldati italiani che rimanevano impressionati dal
fatto che camminavamo: eravamo degli scheletri umani che camminavano.
Nelle città ci facevano andare piano ma quando si arrivava nei boschi
chi non ce la faceva gli sparavano un colpo. Anch'io stavo per fare la
stessa fine. Molte volte pensavo di camminare su uno straccio o qualche
cosa sotto i piedi invece era un nostro compagno di sventura che cadeva
in terra, non aveva più forza di camminare e veniva spacciato.
Diverse soste abbiamo fatto: una volta mi ricordo a una scuola, dei
banchetti, di notte, come scolari. Sempre guardati. Un'altra volta un
teatro, un'altra volta in una fattoria, un'altra volta in un mattatoio.
Arrivammo in una città. Qui siamo ancora rimontati sopra dei vagoni
bestiame e rinchiusi dentro, 40, 50 persone che ci battevamo uno con
l'altro per stare più larghi.
Un giorno un grande bombardamento ci prese in pieno sulle rotaie dei
nostri vagoni, balzavamo da una parte all'altra e pregavamo Dio che
qualche bomba cadesse sopra di noi per farla finita con questa vita.
Arrivammo a Mauthausen. Aperti i vagoni molti compagni nostri erano
rimasti lì morti in quella stazione. Così vidi anche il mio compagno di
scuola Davide Moscati, che non ebbe più la forza di rialzarsi.
Prendemmo a camminare su per la collina per arrivare su a Mauthausen.
Mentre stavo per cadere Lungarino detto Vittorio Piazza mi alzò in tempo
per non farmi sparare dalle SS. Arrivammo alla fortezza di Mauthausen.
Lì ci spogliarono, ci dettero un nuovo numero, ci rimandarono al bagno,
ci fecero dei segni, che non sapevamo dove dovevamo andare, e ci
portarono alla baracca della quarantena. Lì dentro tutti sul pavimento
messi testa e piedi e straziati dai dolori che avevamo: un kapò con una
cinta e con bastoni ci tempestò di botte camminando sopra di qualsiasi
persona che strillava, che si lamentava, dicendo: Ruhe! Silenzio! Ecco
un'altra nuova selezione nella quale anch'io fui selezionato. Ero
ridotto così malamente che fui portato nel Revier, il campo di sotto,
vicino alla scala della morte. Lì vi si entrava vivi e si usciva morti.
Ebbi modo di vedere tanti poveri detenuti deportati che portavano su le
pietre in questa scala della morte di 186 scalini. Quando uno portava
una pietra più piccola gli davano un calcio, e lo buttavano giù e sotto
era un macello di ossa rotte e di sangue. Cercammo molte volte di uscire
da questa baracca perché vedevo che quella era la mia fine. Mi incontrai
con una persona, mi guardava, mi si abbraccicava ma non sapevo chi era.
Era il mio excognato. Settimio Di Veroli, detto il Milanese perché era
nato a Milano. Stentai molto a riconoscerlo perché eravamo
irriconoscibili uno con l'altro. Talmente scheletriti eppure
camminavamo, non so come avevamo questa forza di camminare.
Un giorno potei anche rivedere il mio amico, Teo Ducci, di Firenze, che
serviva al meglio chiunque poteva avere bisogno delle sue cure come
infermiere. Poi un altro giorno ebbi una grande bastonata sulla gamba
sinistra e mi venne una grande suppurazione sulla gamba. Lì c'era il
dottor Calore di Milano. Il dottor Calore era un grande chirurgo che era
stato deportato per politica e mi disse che se volevo salvare la gamba
bisognava fare un intervento. Mi tagliò alla meglio come poteva, e mi
levò tutto quel pus che era nella gamba, che mi si era talmente gonfiata
che non ce la facevo a tenerla. Poi incontrai un altro amico, Angelo
Salmoni. Mi si abbraccicò e diceva che ormai gli americani stavano
vicini. Un giorno -rammento la dissenteria- trovai un pezzo di carbone
per potermi mangiare questo carbone da stufa per stringermi la
dissenteria. Ma un kapò mi ha visto, mi ha dato tante di quelle
bastonate e mi ha portato fuori dicendomi "Morgen Krematorium"; domani
mattina al crematorio. Invece non so come è stato che il sabato, lo
ricordo proprio come un sogno, sentii degli strilli, dei canti:
"Americani, americani!".
Il giorno appresso mi son trovato in un altro ospedale, a Gusen. I
letti, che erano a castello, erano stati tagliati e separati uno
dall'altro con delle lenzuola candide, bianche, e avevano i cuscini: lì
vidi qualche compagno mio di Rodi che era vicino a me e cercava di darmi
la forza di resistere.
Gli americani subito ci dettero medicinali, viveri, amore e senso di
solidarietà. Eravamo ridotti in pochi; tanti dei nostri erano morti in
quella sorte maledetta e i vivi assomigliano a morti. Così dopo poco
tempo a Gusen ci trasferimmo un'altra volta a Mauthausen. Qui incontrai
un mio amico, Vito, che aveva paura di abbraccicarmi. Come dire: che,
abbraccico un morto che cammina? Mi portò dentro una baracca e mi rividi
con i miei compagni: Alberto Mieli, Giacomo Moscati e Raimondo.
Il mio cervello era ridotto come quello di un bambino, raccoglievo delle
cose inutili per terra, con una sacchetta. Anzi, a Raimondo gli detti un
vasetto e gli disse che era bello e lo doveva regalare alla sua
fidanzata quando ritornava.
Io ero molto appassionato di musica, "Speranze perdute", e avevo molte
sigarette che avevo chiesto agli americani ma io non fumavo mai, non ho
mai fumato. Andai da Chicco Calò, Raimondo che avevano trovato dentro la
baracca una chitarra e dissi loro: suonatemi "Speranze perdute" e vi
regalo tutte queste sigarette. Loro accordarono e mi suonarono "Speranze
perdute" e i piangendo sentivo questa musica che stava nel mio cuore.
(1)Dal punto di vista dei contenuti il negazionista o revisionista è colui che afferma quanto segue:
1. Gli ebrei non furono uccisi in camere a gas, o almeno non su una scala significativa
2. I nazisti non avevano una politica, e non operarono alcun sistematico tentativo di sterminio degli ebrei d'Europa; e le uccisioni che ebbero luogo furono la conseguenza di eccessi individuali non autorizzati a livello superiore.
3. Il numero degli ebrei uccisi non corrisponde a milioni, ma la somma totale delle vittime è di molto inferiore;
4. L'Olocausto è per la maggior parte o in toto un mito forgiato durante la seconda guerra mondiale dalla propaganda alleata e sostenuto dopo la guerra dagli ebrei allo scopo di ottenere aiuti finanziari per il neonato Stato di Israele.
Inoltre secondo tali o presunti studiosi la cosiddetta soluzione finale, di cui qualche documento nazista accenna, altro non era se non l'espulsione degli ebrei verso l'est,dove erano state previste riserve in cui potessero vivere le minoranze etniche. E interessante notare come spesso i negazionisti tendano ad interpretare il linguaggio burocratico secondo il suo significato letterale mentre quando le dichiarazioni sui Campi di sterminio si fanno esplicite, essi passano all'interpretazione metaforica.Le testimonianze nella prospettiva revisionista non assumono nessun valore in quanti si parla di un secolare complotto giudaico mirato alla conquista di tutto il mondo. In tali circostanze risulta perciò necessario porre la questione dell'olocausto in una posizione di assoluta indiscutibilità e dare spazio all'esposizione drammatica e sofferta di chi può assicurarne l'indubitabile storicità.