L’Italia del risorgimento (1815-1861)

(rapporto padri e figli)

Con la battaglia delle Nazioni (ottobre ’13) e con quella di Waterloo (giugno ’15) si concluse l’età napoleonica. Il Congresso di Vienna (novembre ’14 - giugno ’15) delineò il nuovo assetto europeo. Prese l’avvio l’età della Restaurazione. Il ritorno al passato riportò in primo piano i valori religiosi, il ruolo della Chiesa, l’alleanza tra Trono e Altare, la riscoperta delle tradizioni e del Medioevo.
La carta politica della nostra Penisola vide da un lato la definitiva scomparsa delle repubbliche di Genova, Venezia, Lucca e dall’altro l’affermarsi del potere austriaco, in modo diretto (Lombardo-Veneto) o indiretto con legami dinastici (Asburgo-d’Este a Modena e Reggio, Asburgo a Parma e Piacenza) o con accordi diplomatico-militari (Stato della Chiesa e Regno delle Due Sicilie). 
Solo il Regno di Sardegna sembrava rispondere all’esigenza di creare uno stato-cuscinetto al confine con la Francia. La Santa Alleanza (settembre ’15) ripropose una rinnovata politica di equilibrio europea che prevedeva interventi militari di Paesi limitrofi per riportare l’ordine laddove fossero riemerse istanze rivoluzionarie, sia di spirito nazionale che rivolte ad affermare maggiore libertà.
La Restaurazione alimentava, per reazione, l’affermazione di spazi di protesta tra le società segrete che si organizzarono in tal modo proprio per potersi opporre alle dure maglie del controllo poliziesco e militare promosso dai governi restaurati.
L’ambivalenza caratterizzò tale periodo: gli stessi principi religiosi animavano le posizioni reazionarie dei governi e al contempo il pensiero dei cospiratori. Autoritarismo e liberalismo si scontravano tra loro pur scaturendo da un comune contesto. Il vento di libertà, con il quale l’età napoleonica aveva percorso i Paesi europei si era trasformato poi in un espansionismo francese, ma quell’aspirazione alla riscoperta dell’identità nazionale non era passata inosservata. Già Murat, durante i Cento Giorni, con il “proclama di Rimini” (marzo ’15) aveva fatto appello all’unità d’Italia e alla lotta per l’indipendenza.
Negli anni Venti i moti spagnoli trovarono la propria eco nella nostra Penisola. Prima nel Regno delle Due Sicilie sembrava che si potessero aprire, anche con il consenso del sovrano, prospettive di libertà costituzionale. I conflitti con la Sicilia, che però rivendicava l’autonomia, le divergenze tra gli stessi promotori del moto, la posizione ambigua del sovrano, portarono all’intervento dell’Austria e alla restaurazione. Fallì così il moto nelle Due Sicilie e proprio allora scoppiarono nel Regno di Sardegna, ad Alessandria (marzo ’21) ma si conclusero anche qui con un nulla di fatto. La Carboneria nel Sud Italia, i Sublimi Maestri Perfetti e i Federati al Nord operarono senza riuscir a creare un progetto unitario.
I moti del ’30 (Modena e Bologna) non ebbero ugualmente successo e confermarono l’esigenza di mutare il modo di procedere lungo il cammino per l’indipendenza. Mazzini avvertì questi limiti e propose l’avvio di una rivoluzione che non si chiedesse in aree circoscritte, ma che affrontasse il tema di un’educazione del popolo italiano capace di prendere coscienza dei valori spirituali che univano i cittadini tra loro. Gli ideali di “Dio e popolo”, di “Pensiero e Azione”, di un’Europa dei popoli che si opponesse a quella dei principi delineata dall’abile politica diplomatica di Metternich costituirono le nuove parole d’ordine. Il nostro Paese, ancora prevalentemente agricolo, era ancora in gran parte estraneo alla prima rivoluzione industriale. Mazzini guardava soprattutto alle città, trascurò le campagne, proponeva la lotta per l’indipendenza, per la creazione di una repubblica basata sul suffragio universale, in una visione interclassista, fondata sulla solidarietà tra le varie classi sociali, studenti, artigiani, borghesia, murattiani. 
Dalla democrazia giacobina promossa dalle società segrete, si passò, con Mazzini, ad un nazionalismo liberale e repubblicano. Intorno agli anni Trenta e Quaranta il dibattito politico si fece più articolato. Accanto ad un liberalismo laico, con d’Azeglio e Balbo, si delineava un cattolicesimo liberale con Gioberti. La Chiesa, che con Gregorio XVI aveva condannato la modernità ed un confronto con il mondo liberale (enciclica Mirari vos ’32), con il pontefice Pio IX sembrò rispondere agli ideali del Gioberti. La prospettiva federalista da lui tracciata sembrò costituire un progetto che realizzava, e così fu in un primo momento, gli ideali di Gioberti. Quando nel ’48 i moti scoppiarono a Palermo, nel Regno delle Due Sicilie (gennaio ’48), e il sovrano Ferdinando II concesse la Costituzione (“Statuto”), anche gli altri Paesi ne seguirono l’esempio, Carlo Alberto nel Regno di Sardegna, Leopoldo II nel Granducato di Toscana, Pio IX stesso. 
Dopo la “primavera dei popoli”, che percorse l’Europa prendendo avvio dal “febbraio parigino”, la nostra Penisola venne attraversata dalla Prima guerra d’Indipendenza. Dapprima sembrò che la “guerra federale” potesse unire i governi, ma subito nacquero le divisioni. Pio IX con l’allocuzione dell’aprile ’48 si ritirò dal conflitto e così fecero sia il Granducato che il Regno delle Due Sicilie. La guerra continuava sotto la guida piemontese, ma la sconfitta di Custoza (luglio ’48) arrestò il cammino verso l’indipendenza dall’Austria. In questi anni cominciarono ad alternarsi momenti caratterizzati dall’iniziativa dei repubblicani legati a Mazzini con altri promossi dai Savoia. Da un lato l’iniziativa repubblicana a Venezia e a Roma e dall’altro la guerra sabauda a Novara. La controrivoluzione però prevalse sia a Vignale, presso Novara, dove Vittorio Emanuele II firmò l’armistizio (marzo ’48), sia a Roma e Venezia, dove crollò la resistenza repubblicana. 
La Restaurazione ritornava a pesare sull’Italia. L’assolutismo si riaffermò, degli Statuti non rimase più traccia, tranne che nel Regno di Sardegna, dove Vittorio Emanuele II favorì una svolta moderata (proclama di Moncalieri - novembre ’49). Nel Regno di Sardegna, in questi anni, cominciò ad avviarsi una politica tendenzialmente liberale e rivolta alla laicizzazione dello Stato. L’attività di Cavour, come Ministro dell’Agricoltura, delle Finanze e della Marina, prese l’avvio proprio intorno agli anni ’50 (1950-52) e proseguì negli anni successivi con l’incarico di Primo Ministro (1852-59; 1860-61). Il “connubio”, accordo tra destra più liberale e sinistra più moderata, segnò l’avvio del suo ministero. Oltre a significativi interventi per modernizzare il Piemonte, si mosse nel senso di attuare una laicizzazione dello Stato formulando il progetto di una divisione di sfere d’influenza (libera Chiesa in libero Stato). Fu attento a tenere a freno le istanze repubblicane promosse da Mazzini con frequenti colpi di mano o addirittura ad avvalersene per realizzare importanti alleanze. 
La Seconda guerra d’Indipendenza prese le mosse sia dall’attenzione rivolta dal Cavour alla politica estera (guerra di Crimea - marzo ’55), sia dall’attenzione ai conflitti interni, abilmente usati nel favorire l’alleanza con la Francia in funzione antiaustriaca (attentato di Felice Orsini nel ’58 e i successivi accordi segreti di Plombieres sempre nello stesso anno). Il conflitto prese le mosse dall’intervento austriaco nei confronti del Piemonte (che il Cavour aveva abilmente predisposto). La guerra, che si protrasse nel corso del ’59 (aprile - luglio) si concluse inaspettatamente con l’armistizio di Villafranca ad opera di Napoleone III che temeva gli sviluppi del conflitto, sia in Italia che all’interno del suo Paese (resistenze da parte dei cattolici). Il conflitto continuò per iniziativa democratica in Emilia, Romagna e Toscana. Cavour si dimise, deluso dalla posizione assunta da Napoleone III, ma poi ritornò al governo e volse a vantaggio del Piemonte i moti scoppiati nelle Romagne e in Toscana con una politica di plebisciti e di annessioni (marzo ’60). 
Saranno nuovamente i democratici, per iniziativa di Garibaldi, a predisporre la spedizione dei Mille. L’intervento garibaldino promosse l’insurrezione in Sicilia, Calabria e si spinse fino in Campania. Cavour avvertì il pericolo rappresentato dall’affermazione delle tesi mazziniane (favorevoli ad una prosecuzione dell’iniziativa militare verso Roma e alla proclamazione della repubblica) e fece intervenire l’esercito sabaudo che, attraverso le Marche e l’Umbria, giunse in Campania. Garibaldi, fedele al motto “Italia e Vittorio Emanuele”, nell’incontro di Teano (presso Napoli) consegnò a Vittorio Emanuele II il Regno delle Due Sicilie da lui liberato (ottobre ’60). I plebisciti di quei mesi promossero l’annessione al Piemonte del Regno delle Due Sicilie, delle Marche e dell’Umbria e la proclamazione, ad opera del parlamento piemontese, del Regno d’Italia (17 marzo 1861).