DALLA BIBLIOTECA PATERNA LA NECESSITA’ DELLA FUGA

L’ambiziosa esperienza di sé, fatta da Giacomo Leopardi attraverso studi assai precoci, i vasti orizzonti aperti dalle sue letture e dalle sue conoscenze, lo sguardo con cui sapeva affacciarsi su un mondo antico e glorioso, tanto diverso dagli angusti spazi del presente, tutto ciò gli fece avvertire più acutamente il desiderio di qualcosa di grande e di assoluto che le sue disgraziate condizioni fisiche, ma soprattutto l’autoritarismo della famiglia parevano negargli per sempre; e presto si svegliò in lui una sempre più acuta insofferenza verso l’ambiente recanatese, verso il padre e la madre.
Giacomo nasce da una famiglia nobile dello Stato Pontificio, primogenito del giovane conte Monaldo e di Adelaide dei marchesi Antici. Il padre, conservatore e legittimista, fu fermo oppositore del dominio francese e napoleonico, sotto il cui impero le Marche stesse furono annesse nel 1808; poiché il suo patrimonio, basato su proprietà terriere, era stato compromesso da un’amministrazione poco accorta, nel 1803 egli ottenne di sottoporlo ad un’amministrazione controllata , in modo da estinguere i numerosi debiti, e affidò tutte le cure economiche alla moglie, persona severa e bigotta, aliena persino da manifestazioni di affetto verso i figli. Ricco di curiosità culturali, Monaldo costituiva intanto una vasta biblioteca, in cui dava grande spazio alla tradizione classica, all’erudizione, alla filologia, ma anche alla letteratura del Settecento e agli illuministi francesi, andando pertanto a edificare quello che sarebbe stato in seguito il luogo di formazione del figlio Giacomo. In lui, che subito rivelò un’intelligenza e un impegno nello studio eccezionali, egli volle trasferire le sue insoddisfatte ambizioni culturali, facendone una sorta di ragazzo prodigio, favorendo la sua passione precocissima per la cultura classica, esibendo le sue prime composizioni ai frequentatori del palazzo familiare, ecclesiastici e nobili di provincia.
Ma fu proprio tale retroterra culturale ottenuto che elevò a tal punto la sensibilità del giovane Giacomo da renderlo non solo consapevole, ma sempre più insofferente nei confronti dell’autoritarismo dei genitori, del modo in cui il suo genio veniva coltivato e protetto, come in una “gabbia”, ammirato ed esaltato, ma allo stesso tempo oppresso da una morale arcigna e severa che vedeva con sospetto ogni apertura verso orizzonti più vivi ed audaci. Da qui il suo pessimismo storico, il suo atteggiamento antagonistico verso il presente, verso la nemica e corruttrice società contemporanea, di cui il reazionario Monaldo era sicuramente l’emblema, che lo portarono al progetto della fuga, fallita, da Recanati e dalla famiglia.
Le accuse, se così è lecito definirle, di Giacomo nei confronti del padre, così come emerge nella lettera a lui scritta in previsione della fuga, mettono infatti in evidenza l’angosciosa e soffocante oppressione di Monaldo, che impediva qualsiasi contatto del figlio con ambienti extracittadini, visti, attraverso una mente offuscata, per così dire, da gelosia, come pericolosi e contaminanti per la purezza del genio del ragazzo. Da parte sua Giacomo si dimostra perfettamente consapevole del suo straordinario valore artistico, riferendosi anche a quanti hanno apprezzato i suoi lavori, tra cui Mai, Cancellieri, Stella e, più autorevole di tutti, Giordani, esplicitando al padre come mai questi avesse permesso la vera e propria realizzazione del suo genio, possibile soltanto al di fuori di un ambiente così limitato di vedute come quello recanatese, nonostante le concrete possibilità economiche della famiglia, e come invece avesse sempre limitato la sua libertà di ventunenne. D’altra parte Giacomo stesso evidenzia come le famiglie recanatesi dell’epoca, anche meno agiate, non solo riservassero per i figli molta più libertà, ma coltivassero le loro pur minime doti (o comunque senza dubbio inferiori a quelle di Giacomo), in ambienti sicuramente più proliferi di Recanati. Di fronte agli occhi sensibili del figlio e alle sue necessità, Monaldo si rivela un padre insensibile ed egoista, più preoccupato della realizzazione dei sui progetti personali, della gestione dell’economia di casa Leopardi, che della felicità e del benessere del figlio. Da qui il maturare nell’animo di Giacomo di profonde sofferenze, di una struggente infelicità e del desiderio di fuggire, di evadere dalla gabbia in cui è chiuso, poiché "la felicità dell’uomo consiste nell’esser contento", cioè nell’esser soddisfatto delle proprie aspirazioni. "Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi" afferma Giacomo: è proprio la noia che tormenta il poeta nella gretta realtà familiare e cittadina, "noia orribile derivata dall’impossibilità dello studio, sola occupazione che mi potesse trattenere in questo paese". Fuggendo Giacomo rifiuta apertamente la tradizione familiare, quello sterile patrimonio di “prudenza” che ha generato noia e malinconia, rifiuto che appare tanto più scandaloso se si considera che la famiglia Leopardi era nobile, dunque indissolubilmente legata alla continuità col passato: "non mi sono mai creduto fatto per vivere e morire come i miei antenati".
Infine, è pur vero che, se il padre rappresenta da un lato il referente delle proprie rivendicazioni esistenziali, dall’altro egli sembra un punto di riferimento come possibilità di comprensione e di calore umano, in realtà però non sempre soddisfatti. Il ruolo del padre in tale prospettiva (visibile in un tono piuttosto gentile di tutta la corrispondenza epistolare di Giacomo con lui) aumenta se considerato in rapporto con la figura materna, dalla quale non solo il giovane Leopardi è sicuramente distante ideologicamente e caratterialmente, ma è anche troppo debole per contenerne il freddo rigore repressivo.
In un passo esplicito delle Zibaldone, Leopardi offre un’agghiacciante descrizione della madre, della sua indole e del suo comportamento profondamente condizionati da una troppo ostinata visione religiosa dell’esistenza. Ecco così che Adelaide dei marchesi Antici è insofferente verso la perdita dei figli, verso la loro morte, invidiosa della morte dei bambini degli altri genitori, poiché la morte dei figli non rappresenta che una liberazione dall’incomodo di mantenerli; gioisce nel vedere i figli star male e nel pericolo di doverli perdere, non prega Dio affinché dia loro la morte poiché la religione non lo consente, ma spera vivamente che ciò accada; ringrazia Dio per la loro bruttezza o la deformità; li costringe a rinunciare del tutto a vivere la giovinezza; rimane indifferente ai loro successi, sente i loro insuccessi come consolazione insistendo solo su di essi; tutto ciò solamente per "liberarli dai pericoli dell’anima", per educarli e dar loro un ruolo all’interno della società; l’importante per lei non è quando morire, ma come morire, cioè se si muore nel peccato o senza peccato. Tale descrizione evidenzia un duro giudizio nei confronti dalla “barbarie” dell’arcigna figura materna, che Giacomo vede completamente condizionata, offuscata nella mente, non dalla superstizione religiosa, ma dal suo essere "saldissima ed esattissima nella credenza cristiana". Donna dotata, dice Giacomo, di un carattere sensibilissimo, così era stata ridotta dall’eccessivo rigore religioso, che aveva completamente catturato la sua ragione, quella ragione che solo l’uomo possiede  e che per sua indole è avversa non solo alla natura ma agli uomini stessi, al "lor ben essere e lor perfezione sociale". è la natura che ci fa piangere la morte dei figli, la ragione che ce ne fa rallegrare: come perciò la ragione è fonte di barbarie, così la religione, che ha assolutizzato la mente della madre, ha reso Adelaide così fredda, così dura, così insensibile, così priva di qualsiasi sentimento nei confronti dei figli, così distante dalla sensibilità di Giacomo.

Relatore: Francesco Panerai.